Gildo De Stefano 
 

IL POPOLO DEL SAMBA 


 

                                                                             recensione di Mario Pagano 

“Dopo il golpe militare del ’64, la musica era diventata una forma di resistenza, uno strumento per far passare messaggi politici”. Così Chico Buarte de Hollanda nella prefazione al volume Il popolo del samba. La vicenda e i protagonisti della storia della musica popolare brasiliana (Rai Eri, 2005). E, all’inizio della introduzione di Gianni Minà, leggiamo: “Il Brasile è l’unico Paese al mondo ad avere come ministro della Cultura un cantautore, Gilberto Gil. La sua nomina è stata un omaggio di Ignacio Lula da Silva [...] a quella musica popolare che rappresenta, come in nessun altro Paese, l’anima più profonda e vera della nazione”.

Le due autonome notazioni, che appaiono nelle prime pagine di questo volume, scritto dal napoletano Gildo De Stefano, critico musicale e giornalista, anticipano, per una felice casualità, il complesso carattere dell’opera dell’autore che, nel ricostruire la storia della musica di un popolo, traccia in realtà la storia di quel popolo .“La musica  -  osservò De Martino  -  è ambiente; essa congloba quindi esecutore e fruitore nell’identità del tempo”, e si sa che il rapporto musica-società è oggetto di numerosi studi sia di sociologi che di musicisti. D’altronde, è lo stesso De Stefano a sottolineare che “contestualmente alla musica il libro ripercorre le tappe fondamentali di un Paese che è insieme, paradossalmente, immensa tragedia e immensa commedia”, aggiungendo che “non si può capire la musica senza capire la società; ma soprattutto non si può capire la società senza capirne la musica”

Alle origini della musica popolare brasiliana vengono identificati elementi portoghesi, amerindi e neri. Le prime melodie prese in considerazione sono quelle della musica liturgica  che egli definisce “legate ad usanze filocattoliche”, quindi quelle delle folias o bandeiras dello Spirito Santo  e dei re magi  (formazioni itineranti che si incaricavano delle questue), e infine le melodie legate alle sagre della Santa Croce e di San Gonzalo d’Amarante. Successivamente, vengono esaminati i ritmi e la gestualità dei riti feticisti, sia afrobrasiliani, sia di origine popolare. E’ questo uno dei capitoli che rivelano lo spessore della cultura musicale dell’autore e l’impegno della sua ricerca. Si veda, ad esempio, l’indagine da lui svolta sull’arduo problema dell’individuazione degli elementi tecnici  neri che hanno influenzato la musica brasiliana. Con l’ausilio della riproduzione di note musicali, De Stefano fissa tali elementi  in ben undici punti, concludendone che non v’è dubbio che quell’apporto strutturale molto “abbia concorso a conferire” ad un gran numero di “manifestazioni musicali a carattere popolare [...] un calore, una dolcezza voluttuosa, un ritmo generoso, ora violento e ora sopito, in un molle barcollare che si accoppiava alla sensualità dei languidi movimenti con cui il nero segnava a chiare note quasi tutti i balli nazionali”.

Altre tappe del lungo viaggio  -  che, anche nelle pagine in cui è in primo piano il rigore dell’analisi e della ricostruzione scientifica, mai rinunzia a servirsi di altre chiavi d’interpretazione, meno  tecniche ma non meno puntuali e severe   -  sono i    canti puri (nati, cioè, indipendentemente da qualunque fattore extramusicale), i canti di lavoro, i balli popolari ed i bailados classificati come di ispirazione amerindia. Arriviamo, così, alla corposa parte dedicata alle manifestazioni musicali dell’urbanesimo e del nazionalismo e, finalmente, al samba.

L’origine del termine sembra africana: deriverebbe da semba, l’ombelico nella lingua quimbundo, uno dei rami bantù dell’Angola, una spiegazione verosimile in quanto richiama il movimento del bacino tipico di quella danza. E’ nel 1838 che su una rivista di Pernambuco, Carapuceiro, un frate, tal Miguel do Sacramento Lopes Gama, esprime critiche contro il samba, riaprendo il discorso sul tèma nel 1842, affermando che “dalle sue parti non si conosce altra cosa”.

Meno scientificamente, si impadroniscono  del problema dell’origine del samba da un lato le leggende, moltiplicando le ipotesi, ma dall’altro, per fortuna, la poesia.Canta il compositore carioca Zé Keti:  “Io sono il samba / la voce della collina / sono proprio io,  sissignore / voglio mostrare a tutti il mio valore / io sono il re del terreiro / io sono il samba / sono nativo di qui, di Rio de Janeiro / sono io che porto l’allegria / a milioni di cuori brasiliani”.

E a proposito di Rio e del suo Carnevale, De Stefano dice qualcosa di assolutamente nuovo per le orecchie della sterminata platea mondiale che rimane incollato alla televisione per ammirare l’allegria, i colori, la musica e, non ultime, le danzatrici seminude che sfilano sui carri o in mezzo alle strade. Sembra, dunque, che la gente delle favelas  -  quella che chiede alla sfrenatezza dei giorni del Carnevale lo stordimento che le darebbe magari una bevuta, se potesse permettersela  -  non abbia salutato con favore il Sambòdromo, la struttura che ospita gli spettatori paganti, creata ai fini della  promozione turistica e  dunque nell’intento di favorire gli introiti, pubblici e privati, che ruotano intorno alle agenzie che organizzano i viaggi e alle emittenti televisive interessate alle riprese. (Una considerazione, questa della festa che stordisce e fa dimenticare le angustie quotidiane, che richiama alla mente almeno due cose: il napoletano “dimane penzo a ‘e diebbete, stasera so’ ‘nu rre” e un proverbio arabo che suona “Un uomo nudo, senza vestiti né scarpe, se gli domandano di che cosa abbia bisogno, risponde che vorrebbe un anello”)

L’autore parla di un “Carnevale scippato dalle ( io direi alle) colline povere che circondano la città” e trova egli stesso accenti di poesia rievocando con nostalgia il passato: “Quando i carri venivano preparati per le strade, quando le allegorie e i costumi venivano confezionati sulle colline, da novembre a febbraio il lavoro non mancava a nessuno: erano i mesi migliori dell’anno per mettere da parte qualche soldo: Le donne si ritrovavano la sera sotto la luce delle lampade a petrolio e cucivano e ricamavano. C’era chi sapeva confezionare splendidi costumi e chi metteva insieme i pezzi che avrebbero addobbato i carri”.

Diretta derivazione del samba definisce De Stefano la bossa nova (il termine è traducibile come  cosa nuova, oppure nuova tendenza) della quale considera creatori Jobim e Joao Gilberto. Il suo ritmo, dice Bruno Barreto, “è leggero, spezza il romanticismo, non si prende sul serio, appunto: è uno scherzo”.

Ma, come si è compreso, il volume alterna alle pagine nelle quali la musica gioca il suo puro ruolo di arte magica o di origine magica  -  che induceva Papini a ritenerla in perenne relazione con il demoniaco  -  quelle di profonda riflessione politica. Si veda, ad esempio,  a proposito della bossa nova, questa riflessione: “La società delle comunicazioni, per il suo rapido intensificarsi, diventava talmente incontenibile che risultava letteralmente impossibile per qualsiasi brasiliano vivere la propria quotidianità senza confrontarsi, a ogni passo, con i fenomeni del tempo: il Vietnam, i Beatles, gli scioperi, le conquiste spaziali, la rivoluzione maoista, e quant’altro”. E, ancora, l’analisi del movimento tropicalista, comparso intorno agli anni Sessanta, che ebbe come ispiratori principali Caetano Veloso e Gilberto Gil.

A volte, basterebbe il titolo di un capitolo a rievocare  - per chi, come me, deve confessare di non avere dedicato al mondo del samba maggiore attenzione di quella che ha riservato, per esempio,  al tango argentino  -  l’atmosfera di certi momenti: per gli anni Quaranta il fenomeno Miranda,  per anni meno lontani Vinicius de Moraes e la sua poesia in musica (Moraes, scrive De Stefano, “ha realizzato il sogno di ogni poeta: arrivare al cuore della gente senza mediazione”).

E il futuro? Molte (troppe?) le speranze riposte In Lula e nella sua capacità di comprendere e risolvere l’attuale crisi del Carnevale di Rio. Crisi che, secondo l’autore, potrebbe simbolizzare l’altra (e più grande) crisi che sta colpendo la cultura e, di più, l’economia brasiliane, magistralmente riassunta in due proposizioni: si importa di tutto, perché così si abbattono i costi, e a tutto si imprime celerità perché lo esige la globalizzazione. Ma alla fine, sembra concludere  De Stefano, dovrà essere il popolo del samba  a salvare dalla dissoluzione le proprie tradizioni.

“Chi non ama il samba / non è una buona persona  / è marcio nella testa o malato nei piedi” dice l’epigrafe (tre versi del musicista Dorival Caymmi)  in testa al capitolo sulle origini: Gildo De Stefano, sano di mente e di piedi, ha scritto una dichiarazione d’amore al samba ed ai brasiliani.

 

PIANOFORTE E BOMBETTA GRIGIA: SALE LA FEBBRE DA RAGTIME

di Nicola Abate

 

 

 

E suonavano il ragtime, perché è la musica su cui Dio balla, quando nessuno lo vede”. Gildo De Stefano, giornalista e critico musicale italiano, apre con questa citazione di Alessandro Baricco la sua opera Ragtime, Jazz & dintorni, edito da Sugarco Edizioni, impegnandosi ancora una volta a scrivere di questa musica, che non è solo semplice musica ma un percorso di storia, cultura e atmosfere che hanno attraversato un intero paese prima, e il resto del mondo poi, per oltre mezzo secolo.

Ma cos’è davvero questa musica? Quando si pensa al ragtime la prima cosa che viene in mente sono le musiche che accompagnavano  i film muti. Quelle melodie trascinanti che ti facevano venir voglia di muovere i piedi e che quasi sempre erano suonate da pianisti in sale poco raccomandabili, sempre affollate e piene di fumo. Seduti al loro piano sembra quasi di vederli questi pianisti: carnagione scura, bombetta grigio perla, panciotto quadrettato, cravatta con spilla di diamanti, sigaretta che penzola dalla bocca e bicchiere di whiskey vuoto sulla tastiera del piano. La loro musica invade la sala, ma la gente è troppo indaffarata per pensare a quei vecchi “professori” che suonano per loro. Per quanto i Gay Nineties rappresentino l’epoca d’oro per questo genere musicale, il ragtime ha percorso vicende molto alterne nel corso della sua storia, ma soprattutto è stato testimone del suo tempo. E De Stefano con piglio storico e curiosità giornalistica, oltre che una passione personale, ci accompagna in questa cavalcata alla scoperta del ritmo sincopato, passando attraverso la storia dei suoi più vivi protagonisti: da Scott Joplin, la cui immaginazione musicale conferì a questa musica la sua espressione più eccellente, soprattutto attraverso Maple Leaf Rag del 1899, il primo vero successo di cui furono vendute milioni di partiture, successo destinato ad essere scoperto soltanto diverso tempo dopo, fino a Joseph Lamb, Tony Jackson, Jelly Roll Morton e molti altri ancora.

A fare da sfondo a questo viaggio nel ragtime c’è l’America a cavallo tra Ottocento e Novecento, con i suoi problemi e le sue enormi contraddizioni, dove la questione dei colored diviene un tema centrale della retorica del tempo e dove la musica, il ragtime appunto, diviene un’isola felice, una via di fuga da una realtà ancora ostile all’integrazione razziale, e nel contempo uno strumento che contribuì a creare l’illusione di essere parte del mondo dei bianchi. Di lì a poco il padre del jazz si snoda in tutto il continente americano: a New York, New Orleans, St. Luois sale la febbre sincopata, che presto contagerà anche l’Europa.

L’opera di De Stefano oltre ad essere un contributo a questo genere musicale, rappresenta anche uno dei pochi tentavi miranti a colmare una vera e propria assenza di studi dedicati al ragtime, particolarmente evidente nel caso italiano, ma riscontrabile anche a livello internazionale.  Basti pensare che la prima tappa editoriale nella storia del ragtime risale solo al 1950 ed è They all played Ragtime, di  Rudi Blesh e Harriet Janis. Da allora in poi i riflettori si sono spostati anche su questo genere musicale. E De Stefano ci riesce benissimo, evocando atmosfere e sensazioni di una musica, che ancora tutt’oggi genera influenza ed è viva e attuale come non mai.